Sant’Arsenio Da Scoprire
Di fondazione altomedioevale, Sant’Arsenio deve sia l’agionimo sia la fondazione ai monaci italo-greci (VIII-IX sec.), seguaci dell’egumeno Scenute, da cui “scenuddi” apostrofazione locale data ai santarsenesi, che qui insediatisi edificarono un “Cenobio” dedicato alla Divina Sapienza o Spirito Santo (Santa Sofia). Le alterne vicissitudini fanno si che nel IX secolo, il Casale di Sant’Arsenio, appartenga al Castaldato di Diano e nel 1136 donato alla Badia della S.S.Trinità di Cava de’ Tirreni, che operò una imponente latinizzazione delle terre grecofone, tra cui nel 1206 il Casale di S.Arsenius s’identificò con l’agionimo di S. Alfanus. La giurisdizione ecclesiastica fu della Badia Cavense prima (fino al 1513), e della Diocesi di Cava poi (dal 1513 al 1850), mentre la giurisdizione civile e criminale fu esercita da Diano (odierna Teggiano). Il Casale, parte dello Stato di Diano ne ha seguito le sorti fino in fondo, infatti, nella repressione attuate da Ferrante d’Aragona con l’Assedio di Diano (1498), il Casale capitolò con la casata dei Sanseverino passando di mano in mano fino ai Kalà (7 luglio 1654), che lo terranno fino all’eversione della feudalità (inizi del XIX secolo). Nel ‘600, Sant’Arsenio come tutto il Regno di Napoli, conobbe l’imperiosa depressione fiscale e l’altrettanta energica forza della rivolta popolare qui attuata dal ribaldo bannita Giovan Battista Verricella detto Tittariello (1630-1648) che qui perpetrò operazioni di rivolta contro l’esazione fiscale messa a punto dal Viceregno Napoletano. Il ‘700, portò sia all’incremento demografico sia all’implementazione delle arti e dei mestieri, facendo di Sant’Arsenio una fucina di maestri d’ascia ed ebanisti, di artigiani ed artisti; nel mentre si andava implementando sempre più l’urbanizzazione civile ed ecclesiastica, come ci testimoniano le case palazziate dei Pessolano già palazzo Baronale, dei D’Aromando, dei Costa-Priore e dei Mele, le civili abitazioni che si snodano, addossate l’una all’altra lungo le strette cortine viarie. Ogni strada ospita una chiesa o una piccola cappella, al cui interno non mancano preziose testimonianze artistiche. Tra gli edifici di culto meritano interesse la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore, la S.S. Annunziata, San Tommaso e Santa Maria dei Martiri. Così come per tutto il Meridione d’Italia, anche per Sant’Arsenio, l’800 ha significato il ritorno degli stenti e dei sacrifici. La propagazione delle idee risorgimentali, diffusesi all’indomani dello sbarco del Pisacane a Sapri, contribuirono alla già precaria situazione che fra disagi vari vide la popolazione oppressa da fucilazioni e condanne. Sempre nel 1857, nel pieno del freddo invernale, il 16 dicembre fu la volta del tragico Tremuoto che fiaccò le ormai stanche possibilità umane e potenzialità economiche e di risorse dei santarsenesi e del Vallo di Diano tutto. E pur di scampare alla fame la popolazione locale suo malgrado dovette emigrare verso le Americhe o arruolarsi nel Regio Esercito, mentre donne e bambini dedicarsi, in loco, ai lavori della campagna e delle masserie. All’indomani del tremuoto le opere di urbanizzazione progredirono ulteriormente tanto quanto l’edilizia civile e religiosa come testimoniatoci dai palazzi Florenzano, oggi Ist. Religiose dei SS Cuori, Cafaro e Fiordelisi, e dalla cappella dedicata alla Vergine del Carmine, eretta in una piazzetta interna, luogo di ritrovo per numerose ingiurie ed attentati.
Il primogenio nucleo abitativo detto “Serrone”, nomenclatura greca indicante l’inaccessibilità del luogo, la dice lunga sull’origine del piccolo insediamento urbano che tra ‘5-‘700 conobbe il suo massimo sviluppo al punto da divenire un modello insediativo unico ed esemplare nell’intero contesto urbanistico valligiano sia per le sue caratteristiche architettoniche sia per le tipologie rurali adottate. Situato sulla parte alta del paese, oggi è facilmente raggiungibile sia mediante delle scalinate litiche sia mediante la strada rotabile. Il borgo pur mantenendo a sprazzi la sua fisionomia architettonico stilistica arcaica, in seguito ad una discutibile riqualificazione iniziata qualche anno fa, sta conoscendo momenti di stravolgimento identitari di notevole rilievo, tanto da comprometterne notevolmente l’antico ed originario assetto urbano, architettonico ed antropico. Infatti, prima dell’inizio dell’operazione economica, il borgo era discretamente abitato dagli indigeni, i quali dopo esproprio coatto hanno lasciato l’antico sito per trasferirsi a valle, con le debite conseguenze che il caso comporta. L’intero tessuto urbano arcaico è costituito da una serie di case edificate sulla nuda roccia, il cui ingresso è caratterizzato da portali litici databili tra ‘5 e ‘700. La lineare conformazione urbana si dipana dal basso verso l’alto al cui vertice è ubicato l’antico fortilizio militare-residenziale del 1598 (rimaneggiato ed ampliato da don Gaetano Kalà nel 1691), mentre nell’800 venne adibito a Municipio e nel ‘900 a civile abitazione. Il primitivo insediamento architettonico ben si raccorda con il nucleo urbano formatosi nel corso dei secoli e sviluppatosi a valle, all’indomani della bonifica. Buona parte d’esso regala ancora oggi qualche traccia superstite dell’antica caratteristica dei portali litici d’ingresso (in pietra locale), arricchiti da suntuose ed allegoriche chiavi di volta a motivi araldici, floreali, animali, vegetali, antropomorfi o semplici incisioni delle iniziali dei proprietari, distinguendolo dai Comuni vicini. I portali superstiti scampati alla furia devastatrice del Sisma del 1980 o all’ignoranza della gente, recano in buona parte la data post Tremuoto 1857, il che fa pensare ad una notevole campagna edilizia intrapresa dalla Municipalità all’indomani del Tremuoto suddetto e che ad onor del vero per Sant’Arsenio non comportò danni ingenti, come la vicina Polla, né a cose né a persone. Interessanti risultano anche i toponimi viari che sono scampati all’oblio e che rimandano, chiaramente, alla presenza Normanna in queste terre e contrade. Infatti, ci si può trovare in Rue come quella Stella o Ceraso (attuali via A. Cafaro e P. Ciliberti), oppure in Palco soprano e sottano, Vico Ailante, a la Braida o alla Difesa, e finendo in Via Lombardia sottana e soprana.
Grazie alla sua collocazione pedemontana, il Comune non manca d’interessanti siti naturali. Meritevole di attenzione, uno fra tutti, è il Monte Carmelo (1145 mt. slm). Sito naturalistico di facile accesso grazie alla strada rotabile che s’inerpica tra lussureggianti castagneti e faggeti, fino a raggiungere la vetta dove è ubicato il piccolo Santuario dedicato all’eponima Vergine del Carmelo (edificato nel 1952), e più in basso un’ampia distesa verde, detta “Lago”. Dalla terrazza naturale offerta dal Santuario è possibile godere di un panorama mozzafiato da cui trarne una istantanea dell’intero Vallo di Diano. Lasciato il Santuario si può piacevolmente trascorrere la giornata all’aperto a contatto con la flora, la fauna e la vegetazione montana. Infatti, nella zona detta Lago, antico sito risalente al Pleistocene, come dimostrano i fossili rudisti, è possibile riposare e godere del verde attrezzato a pic nic. Inoltre, tutta una serie di percorsi attrezzati contribuiscono a rendere apprezzabile la permanenza e la natura che in tutto il suo rigoglìo si offre spettacolare soprattutto nelle stagioni primavera ed autunno, allorquando la cromia colorativi della vegetazione contrasta con l’azzurro del cielo terso. In vetta non manca d’incontrare sia la razza bovina podolica sia cavalli allo stato brado, infatti, ben si presta l’intero massiccio calcareo all’allevamento dei suddetti capi di bestiame.
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Come tutti i paesi dell’area interna della Lucania la tradizione della pasta fatta a mano è immutata da millenni (fusilli, gravaiuoli con ripieno di ricotta e prezzemolo nella variante con o senza pettola, cavatelli, e palmarieddi ecc.ecc), e tanti altri piatti della tradizione gastronomica contadina. Qui, di seguito si riportano quei cibi e/o piatti o produzioni proprie ed esclusive di Sant’Arsenio.
CIENDO ‘MBANDI (pasta all’uovo in brodino di pollo)
Come si prepara: si crea una montagna di farina di grano duro mentre in un recipiente si sbattono le uova che saranno poi spruzzate con una forchetta sulla farina. L’operazione è da ripetersi fino ad esaurimento delle uova. Si raccolgono in un crivello da cucina i grumi di farina che si creano per l’addensamento dell’uovo, raccogliendoli in un recipiente. L’operazione prevede che il brodo sia già pronto, infatti, si fanno bollire le frattaglie del pollo o la gallina vecchia in abbondante acqua con l’aggiunta di verdure. Non appena pronto il sugo, si passa con il passino fino ad ottenere un passato denso e cremoso in cui immergerci la pasta all’uovo, e far cuocere per pochi minuti. Il risultato finale è ottimo sia al palato sia alla vista. Tanto da non mancare di apprezzare. L’anomalo procedimento conduce ad un piatto semplice ma buono, probabile antesignano della odierna pastina all’uovo prodotta da un noto marchio italiano. Eppure, essa per secoli ha sfamato la fame di centinaia di infanti.
SUPERSATA (salame a base di carne magra di maiale).
Come si prepara: si utilizzano le parti magre e pregiate del suino oggi si triturano mentre anticamente si tagliuzzavano a lama di coltello, si sala, pepa (a grani grossi), e si miscela con dell’ottimo vino locale (aglianico). La si lascia macerare e la si saggia fritta in padella. Se al gusto essa risulta gustosa e saporita si procede all’insaccatura manuale in budello. Una volta insaccata la si stringe con dello spago e la si mette sotto pressa per una intera notte. Il giorno successivo la si appende per la debita stagionatura. Per una buona stagionatura, fondamentale è avere un luogo asciutto e areato lievemente riscaldato. La supersata è buona da mangiare fresca arrostita sulla brace e stagionata accompagnata con del buon pane di grano duro e dei formaggi pecorini stagionati, il tutto accompagnato da un buon vino rosso. La supersata viene conservata sott’olio o sotto sugna al fine di mantenerne intatte tutte le caratteristiche nutrizionali e di fragranza della carne.
‘MBUPATIELLI (il dolce del Matrimonio o di altre feste liete).
Come si prepara: prodotto base per realizzare il dolce è la farina e il miele millefiori “biologico”. Si mette a bollire il miele x 3 volte, mentre si dispone la farina a fontana. Non appena il miele ha concluso la sua bollitura lo si amalgama con la farina fino a diventare un impasta compatto e morbido. Si procede nello stendere l’impasto con i polsi delle mani fino ad ottenerne una sfoglia sottile che va tagliata a strisce. Conclusa l’operazione, le strisce di sfoglia si dispongono su di una teglia da forno precedentemente oleata e le s’incide a lama di coltello, mentre la rotella le dona la tipica forma romboidale. S’inforna a temperatura 120°, e non appena inizia a prendere colore dorato intenso, si estrae e lo si lascia raffreddare. Freddo, il prodotto si spacca a rombo seguendo l’incisione precedentemente fatta con la lama di coltello. Il dolce, gustoso al palato risulta essere al quanto duro e resistente per via del miele. Il prodotto può essere conservato in posto umido e ben areato, al fine di ammorbidire il dolce che può diventare persino delicato e morbido sia ai denti sia al palato.
OLIO DI OLIVA D.O.P “Colline Salernitane”
L’orografia carsica ed il terreno argilloso e grasso contribuisce non poco alla buona coltivazione dell’olivo. Infatti, le tecniche di coltivazione qui adottate sono di buon livello fino a raggiungere, in alcuni comprensori, affermate soluzioni innovative da un punto di vista tecnico-organizzativo che prevedono sia la raccolta delle olive sia la potatura meccanica degli ulivi. Ottima è la resa del frutto dell’olivo da cui si estrae un olio d’oliva, dal colore verde con riflessi paglierini, limpido e a volte velato. All’olfatto mostra un sentore di fruttato definito ed ampio veniente da oliva pulita e abbinato a discrete note di foglia verde e di pomodoro acerbo, mentre al palato rivela un sapore deciso e persistente, gradevolmente amarognolo tendente al piccante. Gusto corposo con buona ed equilibrata struttura e chiari sentori amarognoli di carciofo, cardo e vegetali amari. Il retrogusto è invece pulito. La sua acidità non eccede oltre lo 0,70% con presenza di polifenoli maggiore o uguale a 100 mg/kg. Il prezioso olio si ottiene dalla premitura delle olive di varietà autoctone, di antica introduzione come le cultivar Rotondella, Frantoio, Carpellese o Nostrale per il 65% e Ogliarola, Leccino, per il restante 35 % . Non mancano altre cultivar che però incidono solo per il 20%. Il raccolto annuale, in buona parte viene destinato alla produzione di olio DOP denominato “Colline Salernitane” e viene raccolto entro il 31 Dicembre di ogni anno, esclusivamente a mano, mentre un’altra parte del raccolto, principalmente quella di produzione in proprio per piccoli appezzamenti viene molita in proprio. Il disciplinare del DOP, autorizza si l’ausilio di mezzi meccanici ma è fondamentale l’osservanza di tutte le precauzioni necessarie ad evitare rotture e ferite sia ai frutti sia alla pianta così come le contaminazioni batteriche. È vietata, inoltre, la raccolta delle olive cadute a terra, l’utilizzo di cascolanti e di sacchi da trasporto in canapa o sintetico. Infatti, non oltre il secondo giorno di raccolta e stipatura in cassette forate da 25 kg. cad., le olive vanno trasportate al frantoio per la molitura al fine di estrarre l’olio di oliva detto extravergine. Le tecniche da utilizzare sia negli oliveti che nei frantoi sono dettate dal Disciplinare di produzione, che a tutela della qualità del prodotto impone particolare cura nelle fasi della raccolta, del trasporto e della conservazione delle olive. La produzione massima di olive non deve superare i 12.000 Kg/ha e la resa in olio non può superare il 20%.
VINO AGLIANICO I.G.T “Tempere”
Fin dal 1700, è attestata in Sant’Arsenio la coltivazione del vigneto, mentre nell’800 viene introdotta, ad opera di Domenico Giulio Mele, la cultivar barbera piemontese. Per secoli il vigneto è stato una delle attività agricole maggiormente sviluppata, come si evince dai rogiti e dai testamenti ad pias causas. La trasformazione delle uve ha notevolmente contribuito alla creazione in loco sia di botteghe atte alla realizzazione di botti e tini in essenza di castagno o di rovere sia di manodopera specializzata. Meritevole è la presenza di maestri d’ascia santarsenesi che nel tempo hanno fatto parlare di se. Oggi, questa plurisecolare tradizione è del tutto scomparsa.
Al momento appezzamenti medio piccoli di vigneti continuano a produrre vino da vitigno autoctono ad uso principalmente familiare anche se non mancano vigneti a produzione di cultivar aglianica campana e lucana. Infatti, il tenace impegno di Arsenio e Giuseppe Pica, viticoltori in Sant’Arsenio (SA), stanno producendo, imbottigliando e riproponendo sulle tavole del Vallo di Diano e del circondario limitrofo, un vino di uve aglianiche coltivate in proprio in terreni situati in contrada Tempe, zona ad antica vocazione viticola sulle colline cilentane che declinano nel Vallo di Diano (486 mt slm). Le caratteristiche dei terreni conferiscono al vino una concentrazione ed una personalità unica che evolve nel corso dell’invecchiamento sia in botti di rovere sia in ambienti umidi. Il prodotto finale è di ottima qualità. Gusto deciso e colore rosso bruno intenso non inferiore ai 13°, si assapora in tutta la sua fragranza se servito a temperatura ambiente e/o leggermente fresco. Gradevole al palato e profumato all’olfatto esso è ottimo accompagnatore sia di formaggi stagionati dal gusto deciso (ovini,caprini e bovini) sia di carni rosse (cinghiale o selvaggina). Particolarmente gradevole alla vista per il suo colore rosso bruno intenso ben si abbina con il cioccolato fondente, mentre per retrogusto non disdegna l’abbinamento con la piccola pasticceria a base di frolla (senza margarina e/o burro vario).
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Piacevoli escursioni a piedi, a cavallo o in bicicletta si possono fare sui monti che circondano il paese, seguendo la strada pubblica che conduce al santuario della Vergine del Carmelo, sul Monte Rascini.
Una natura incontaminata, caratterizzata dal paesaggio carsico dei Monti Alburni (che ha generato la grotta del Secchio a confine con il paese di San Pietro al Tanagro e l’inghiottitoio della Foce a nord), permette di fare piacevoli scoperte, come le orchidee selvatiche oppure i reperti fossili di ammoniti, che raccontano del tempo in cui le acque dei mari arrivavano sino a queste quote. Il sottobosco offre una notevole varietà di frutti, come le fragoline, le more, i mirtilli, etc. In tempo d’autunno la fascia pedemontana consente la raccolta di castagne e noci.
Anche la campagna offre piacevoli scorci, soprattutto d’estate, quando consente lunghe passeggiate fino al fiume Tanagro.
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Di particolare interesse il Borgo Serrone continua tenacemente a mantenere le tipiche caratteristiche architettoniche, se pur minate da una discutibile riqualificazione atta alla creazione di un borgo albergo avente l’obiettivo di creare una serie di interventi necessari a determinare le condizioni per lo sviluppo di un sistema integrato turistico-produttivo, progetto finanziato con fondi CIPE. Notevolmente interessanti le modalità edilizie qui adottate dai primi abitatori del sito. I pastori ed i montanari, adottando il principio di necessità virtù, hanno messo a punto tecniche, sistemi e materiali che se pur non rispondenti alle condizioni generali dell’ingegneria e della matematica risultano, dati i risultati, di fondamentale unicità ed importanza. Manufatti edilizi interessanti sia da un punto di vista urbanistico sia stilistico-architettonico.
Lasciatosi alle spalle il Serrone, percorrendo via Monti, ci si ritrova in piazzetta San Tommaso, denominazione dovuta all’eponima chiesa (1600, già S. Maria del Soccorso 1586). Il prospetto facciale odierno, rimontante al 1938, ne determina discutibilmente la rilevante considerazione artistico-archiettonica, al punto da comprometterne il naturale sviluppo. Varcata la soglia si resta estasiati dalla pala d’altare (olio su tela), di cultura tardomanierista collocata sull’altare maggiore e raffigurante l’apparizione di Gesù all’incredulo Tommaso. Per impostazione e tecnica la pellicola pittorica si rivela simile ad una eponima napoletana dipinta dal senese Marco Pino (Costalpino 1525 Napoli 1587). Quella santarsenese, invece, per stesura colorativa più secca fa propendere per una collocazione databile intorno ai primi decenni del XVII secolo. Probabilmente la tela è stata acquistata sul mercato napoletano e solo in seguito qui collocata. Meritevole di considerazione anche il soffitto a cassettoni (assi lineari in essenza di castagno), arricchito centralmente da una tavola ad olio (50×70) raffigurante l’Ecce Homo, di ambito o bottega napoletana del XVII secolo (primi). Il dipinto è collocabile nell’ambito della pittura pietistica tardomanierista ampiamente diffusa dai modelli di Giovan Bernardo Lama e Silvestro Buono. La chiesa parrocchiale dedicata alla Vergine Assunta, già menzionata nella donazione del 1136, al suo interno custodisce una molteplicità di espressioni artistiche. Sin dal 1600 la sua storia ha conosciuto una fervente attività edilizia, artistica e cultuale che si è protratta fino ai primi del ‘900, mentre decisioni più drastiche condussero nel 1966 alla demolizione dell’edificio cultuale che venne riaperto al culto nel 1971. Di stile ed impostazione moderna al suo interno non mancano tutte quelle pregevoli testimonianze artistiche, qui sedimentatesi nel tempo. Dell’altare del Rosario (già confraternita fondata il 6 maggio 1575 con Bolla papale di Pio V, ossia dopo la vittoria a Lepanto della flotta cristiana su quella turca), vi è la pala d’altare fiamminga databile intorno al 1575 (olio su tavola), raffigurante la Vergine del Rosario e attribuita a Cornelis Smet o al suo atelier napoletano (1574-1592). La tavola è accompagnata da 15 formelle, rimando ai Misteri della corona del santo rosario, che posti tutt’intorno, fanno da coronamento alla scena centrale. Sono firmati e datati Nicola Peccheneda 1791, i tre teloni decorativi dell’antico soffitto parrocchiale e raffiguranti i due laterali la Natività e la Purificazione di Maria (3,00×2,50), mentre l’Assunzione della Vergine assorbe l’intero telone centrale bislungo centinato (6,30×3,00). Per la loro collocazione originaria l’autore, conscio della visione dal basso verso l’alto, non lesina l’utilizzo delle sue conoscenze sia dei soffitti napoletani sia delle audaci inquadrature prospettiche. Sempre del Peccheneda è il dipinto raffigurante l’Angelo custode, rimontante al 1770. Notevole all’interno della parrocchiale è la qualità delle sculture lignee policrome, realizzate in buona parte da Giacomo Colombo (Este 1662-‘663 Napoli 1731), e da altri scultori napoletani. Ma l’intensa opera del patavino colpisce per la sua mole, qui documentata da ben 4 sculture: il San Vito martire (1706), il Crocifisso (1712), il mezzobusto raffigurante il Sant’Arsenio abate (primo quindicennio del ‘700), il mezzobusto raffigurante Sant’Anna (restituita allo scultore ed appartenente alla seconda metà del ‘700), ed il gruppo tridimensionale dell’Annunciazione (1709), collocato nell’eponima chiesa. Imboccata via Roma, a pochi metri dalla parrocchiale, ci si ritrova dinanzi alla facciata curvilinea della chiesa della SS. Annunziata fondazione monastica Benedettina cavense (XIII-XIV secolo). L’originario priorato ecclesiastico di santa Maria si tramutò in ospitale, aggiungendovi il titolo dell’Annunziata. Dell’originario ospitale restano pochi ruderi tra cui il frantoio litico ‘500sco, ubicato nei pressi della chiesa. Rimaneggiata secondo le direttive barocche (XVIII secolo) mantiene inalterato il suo fascino che si apre con il bel portale litico (1770), e la torre campanaria a tre ordini con cuspide a cipolla (1770). Oltrepassato il portale, l’’interno, a navata unica ampia e luminosa ben si presta alla predicazione nel mentre il presbiterio è diviso dall’abside, grazie all’altare a commesso marmoreo-policromo. Immediatamente dietro l’altare ed in posizione a pelo sul coro ligneo in essenza di noce, rovere e castagno in stile classico, troneggia la cona indorata e riccamente decorata a motivi floreali e vegetali al cui interno vi è allocato il gruppo scultoreo e pittorico, pregevole pezzo di straordinaria raffinatezza, raffigurante l’annuncio dell’angelo alla Vergine. L’intero gruppo, composto da fondale dipinto (olio su tela), è attribuito alla mano di Francesco Solimena o allo stesso Giacomo Colombo (unico esempio di pittura dell’artista patavino). Le due statue a tuttotondo intagliate e policrome sono datate da Giacomo Colombo 1709. Meritevole è anche la cona lignea meccata a foglia oro e argento, probabilmente progettata dalla stesso artista. L’intero gruppo, lievemente elevato rispetto all’aula sacra, crea una rappresentazione teatrale del tutto unica, fino a fare della stessa una opera non solo scultorea ne solo pittorica, infatti, grazie alla cona si recupera lo sviluppo spaziale fino a dare espressività maggiore alla rappresentazione, di cui il dipinto fondale ne è una naturale quinta scenica, dove l’evento non si presenta ma si rappresenta. Successivi al 1770 sono le tele raffiguranti il Transito di San Giuseppe, la Madonna con S. Ignazio di Lodola (qui detta degli Angeli), e la Madonna delle Grazie, che per le evidenti impronte demuriane, sono attribuiti al pollese Nicola Peccheneda. Sempre della cerchia solimenesca sono i due pendant raffiguranti l’adorazione dei pastori e quella dei magi (XVIII secolo). Elevando lo sguardo verso l’alto si nota un bel soffitto a guazzo (tempera su tavola), a motivi floreali, vegetali ed architettonici al cui cento vi è un telone bislungo centinato raffigurante l’Annunciazione, opera di modesto pittore (XVIII secolo seconda metà). Altro ancora può essere ammirato dal visitatore che si addentra lungo le vie ed i vicoli del centro urbano, mentre il sito naturale del Monte Carmelo, facilmente accessibile mediante strada asfaltata che conduce fino alla vetta della montagna ove è situato l’omonimo santuario, consente di godere del panorama, particolarmente suggestivo, del Vallo di Diano e di trascorrere momenti di tranquillità a contatto con la natura sia con i percorsi naturalistici sia per le aree attrezzate per la sosta con tavoli, panche e grill.
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L’itinerario di visita storico-artistico di Sant’Arsenio parte dalla chiesa di Santa Maria Maggiore, che sebbene ricostruita in forme moderne alcuni decenni fa, conserva intatto patrimonio d’arte antico, tra cui spiccano opere scultoree di Giacomo Colombo e dipinti rinascimentali e barocchi. AI secolo XVI appartengono una croce astile in argento sbalzato e cesellato e la pala della Madonna del Rosario, opera della cerchia del fiammingo CornelisSmet, commissionata dall’omonima confraternita nel 1575, che ripete un’iconografia diffusasi anche nel territorio cilentano e valdianese a seguito della vittoria di Lepanto.
Corposo è il patrimonio pittorico dei secoli XVII-XIX, tra cui merita attenzione il ciclo dell’antico soffitto della chiesa, con le storie della Vergine, disteso su tre tele dai contorni sinuosi, opera del pollese Nicola Peccheneda, a cui appartiene anche una tela con la raffigurazione dell’Angelo custode (in sagrestia). La chiesa conserva opere dell’altavillese Saverio Mottola e del ben noto scultore padovano Giacomo Colombo, alla sua mano sono ascrivibili i mezzi busti dei santi patroni Arsenio Abate ed Anna e le statue di San Vito (proveniente dall’omonima cappella collinare] e del Crocifisso (posto nella parete absidale). All’arte dello scultore presepiale napoletano Giuseppe Sarno, appartengono invece i simulacri di San Giuseppe, di San Rocco e di San Francesco Borgia.
Uno scrigno d’arte è racchiuso nella stupenda chiesa dell’Annunziata, la cui origine risa le ai tempi della presenza dei Benedettini di Cava , che la edificarono, affiancandovi un ospedale per poveri e pellegrini, rimasto in vita fino alla fine del Settecento.
L’architettura roccoco, dalle linee sobrie ed eleganti,è arricchita da un apparato decorativo di prim’ordine, tra cui spicca la cona lignea intagliata e policromata, racchiudente il gruppo scultoreo dell’Annunciazione, opera di Giacomo Colombo degli inizi del Settecento la cantoria dell’ingresso. Di straordinario effetto scenografico è la parte absidale della chiesa, che oltre alla citata ancona lignea, conserva lo stupendo altare maggiore, opera di uno scalpellino padulese e di un marmoraro, le cui iniziali sono impresse ai lati della composizione architettonica. Sugli altari laterali campeggiano due tele di Nicola Peccheneda ritraenti la Vergine delle Grazie e la Madonna degli Angeli (al cui altare è applicata l’indulgenza dell Porziuncola) e due statue della metà dell’Ottocento: Sant’Alfonso Maria dé Liguori e Santa Filomena. Ai lati dell’altare maggiore fanno bella mostra due grandi tele con l’Adorazione dei Pastori e dei Magi. Notevoli sono poi il soffitto della navata con una tela dell’Annunciazione posta su un tavolato dipinto a “guazzo” (tempera su tavola) motivi geometrici e vegetali ed il portale di ingresso tardo-barocco del 1770.
Dopo un recente restauro, la cappella di San Sebastiano ha offerto interessanti spunti di lettura sulla sua origine, risalente al XV secolo (con la presenza di una confraternita del SS. Nome di Dio), mediante il culto a San Bernardino da Siena, che una leggenda vuole di passaggio per il casale.
AI Quattrocento risalgono alcune monofore strombate ritrovate nel restauro delle pareti laterali esterne, che dimostrano l’originalità delle murature perimetrali e ne fissano temporalmente la planimetria architettonica. La chiesa prospettava sull ‘antico Monte Oliveto e perciò al suo prospetto furono applicate le cinque croci del Calvario, la cui devozione è rimarcata dal tondo con bassorilievo in cotto policromo, che raffigura la Deposizione. All’interno della cappella, oltre al simulacro di San Sebastiano, di fattura antica, ma di carattere popolare (restaurato alcuni decenni fa), si trovano le statue di San Luigi Gonzaga, di San Gerardo Maiella e dell’Angelo Custode (anticamente nella chiesa parrocchiale), opera di fine Ottocento dello scultore campagnese Giuseppe Caracciolo. Alla cappella appartengono anche un dipinto del soffitto a tempera (santo titolare), una raffigurazione di San Sebastiano del pittore Padre Angelico Spinillo ed un disegno su cartone, raffigurante la Discesa dalla Croce, opera di Pietro Annigoni.
La piazza su cui affaccia la chiesa vede la presenza di una croce stazionale in pietra, su colonna, risalente al XVI secolo.
La cappella di San Tommaso Apostolo si colloca a mezza via tra la chiesa matrice ed il Serrone, la parte più alta di Sant’Arsenio.
L’origine del luogo sacro risale al Cinquecento, ma con diversa dedicazione: Santa Maria del Soccorso. Nella cappella sono custoditi un bel dipinto dell’Incredulità di San Tommaso, probabile opera del XVI secolo di Marco Pino da Siena ed una piccola raffigurazione dell’Ecce Homo, mentre vi si conservava fino a non molto tempo fa un importante dipinto dell’Incredulità dell’Apostolo titolare del luogo di culto, di chiara ascendenza caravaggesca. Sulla via del Serrone si incontra la cappella di Sant’Antonio da Padova, edificata agli inizi del Seicento per volere del vescovo cavense Cesare Lippi e che conserva il simulacro ligneo del santo patavino, del XVIII secolo. Nel piccolo oratorio vi sono nche due tele del 1931 di Alfonso Metallo. Adiacente alla cappella vi è il Monte Calvario, edificato sul cadere dell’Ottocento per volontà di monsignor Giuseppe Sacco in sostituzione deIl’antico, collocato sulla Piazza della Cappella di San Sebastiano.
Il Serrone conserva due luoghi di culto dalle antiche origini San Salvatore e San Leonardo, che testimoniano la frequentazione nell’alto-Medioevo del sito e il riferimento specifico all ‘invocazione dei fedeli contro i Saraceni, che in quel periodo seminavano il terrore tra la popolazione locale.
AI secolo XV risale la cappella di Santa Maria dei Martiri, un edificio di culto collocato lungo la via che conduce a Polla e che mostra al suo interno un’architettura tardo-barocca, con stucchi decorativi alle pareti. Le tele appartenenti alla chiesetta sono custodite in chiesa e raffigurano La Vergine con santi. della metà del XVII secolo, La Trinità Terrestre, una Madonna e santi e infine, San Gennaro vescovo e martire. AI limite meridionale del paese sorge la chiesetta di San Rocco, il cui culto e l’origine stessa della cappella, rimandano alla terribile peste del 1656, che flagellò il Regno di Napoli. Sull’unico altare in marmo è posta la statua del XVIII secolo, di fattura anteriore a quella conservata in chiesa madre.
L’esperienza architettonica sacra di Sant’Arsenio si chiude cronologicamente nel Novecento, con l’edificazione di tre luoghi di culto importanti: la Madonna del Carmine, la cappella di Santa Lucia (di recente restaurata ed edificata nel 1911) e la cappella ossario del Cimitero, su progetto di monsignor Antonio Sacco, architetto e bibliotecario alla Vaticana.
La prima, innalzata dalla devozione dei fedeli e di monsignor Matteo Pica, sul luogo in cui si trovava un’edicola votiva con l’effigie della Vergine, è arricchita da un apparato architettonico degno di nota e conserva le raffigurazioni della Vergine di Pompei, di San Vincenzo Ferreri, di Santa Teresa del Bambino Gesù e di San Michele Arcangelo, oltre al simulacro seicentesco della Vergine Bruna del Carmine.
Dalla devozione al Carmelo e per iniziativa dei santarsenesi, sul Monte Rascini fu edificato, alla metà del Novecento, il Santuario della Madonna del Carmine.
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